40 anni di storia del Blangé raccontati dal suo “papà”: Bruno Ceretto

Nel 2025, l’iconico Arneis della cantina di Alba festeggia quattro decenni di successi. L’intervista esclusiva

40 anni di storia del Blangé raccontati dal suo papà Bruno Ceretto
Galeotti furono una gomma bucata, «due colline a forma di tette», un parroco e un panettiere. La storia del Blangé, vino icona della famiglia Ceretto che nel 2025 compie 40 anni, è un condensato di aneddoti che mescola sacro e profano. Uno spaccato della carta d’identità delle Langhe e del Roero. Due territori diventati grandi insieme a questa etichetta, che ne ha accompagnato le tappe in quattro decenni. Giungendo intatta, rilucente ed esemplificativa, sino ai giorni nostri. Protagonista assoluto della storia del Blangé è Bruno Ceretto.

«Il discorso è molto lungo: lei registra?». Camicia biancoblu, a quadretti. Cravatta d’un giallo sgargiante. Giacca in pendant a quadri beige, blu e arancioni. Del tutto a suo agio nel quartier generale della cantina, ad Alba, il papà del Blangé, 87 anni, tiene a sincerarsi che tutto sia al suo posto, prima del ciak. Un po’ come quei padri e quelle madri che non smettono di trattare i figli adulti come bambini, sistemando le pieghe dei vestiti prima di vederli uscire di casa. La storia del vino che ha reso famoso l’Arneis nel mondo – un figlio per Bruno Ceretto, che l’ha pensato, visto nascere e crescere – dev’essere narrata in maniera impeccabile. Prendendosi il tempo necessario. O, piuttosto, lasciando perdere il discorso. Nell’aria dell’ufficio ad ampie vetrate danzano gli aromi di un buon caffè. Roberta Ceretto siede accanto a Bruno. Pronta a ripercorrere un racconto che sa di fiaba.

DA LA LUNA E I FALÓ AL BLANGÉ

«Negli anni 70 – inizia il patron, con voce ferma ma accogliente – ho conosciuto un grande produttore friulano, Manlio Collavini, che è addirittura padrino di battesimo di mia figlia Roberta. Grazie a lui cominciai a frequentare il Friuli, notando il grande sviluppo che aveva il Pinot Grigio, in quel momento, sul mercato nazionale. A noi, qui nelle Langhe, mancava un bianco così. Di ritorno in treno verso Alba, avendo forato una gomma, mi torna in mente che, ne La luna e i Falò, Cesare Pavese raccontava di due colline a forma di tette, meravigliose, nei pressi di Santo Stefano Belbo. Mi dico: mentre son qui, vado a veder ’ste tette, no?».

«Arrivato alla stazione di Santa Vittoria, leggo su un grande cartellone pubblicitario: “Francesco Cinzano, dal 1850 vini e spumanti”. Tra me e me penso: caspita, ma vedi? Spumanti? Questi qui nel 1850 facevano vini bianchi o qualcosa del genere! L’indomani decido di andare nel Roero per consultare i parroci dei paesi e capire se, per davvero, qualche contadino stesse piantando uve bianche in zona. I parroci, non i postini, sono quelli che ti danno le notizie vere! Infatti scoprii che moltissimi piantavano un vitigno chiamato Arneis. Non avendo il Moscato, avevano scelto quell’uva bianca per farsi un po’ di vino dolce, per Natale».

BRUNO CERETTO COMPRA “CHICHIVEL”, LA MIGLIOR COLLINA PER IL SUO ARNEIS

Nel suo girovagare in Roero, il futuro papà del Blangé scopre un’azienda agricola con ben 5 ettari di Arneis. A Canale. «Si chiamava Cornarea – ricorda – una cantina che esiste ancora. Andai lì per comprarla, essendo ormai deciso a produrre un vino bianco. Ma non se ne fece nulla». Bruno Ceretto sa bene che i parroci non dicono la verità solo sui contadini. Sono anche le persone più adatte ad indicare quali siano i migliori vigneti della zona: quelli in cui lo sconosciuto Arneis maturava meglio.

L’assist ecclesiale di don Nino, allora parroco di Vezza d’Alba, suo ex chierico nelle estati trascorse a studiare al posto di divertirsi con gli amici – «da giovane avevo sempre molte materie rimandate a ottobre, quindi finivo in seminario!» –  si rivela vincente: «La miglior collina della zona – rammenta Bruno Ceretto – era quella che chiamavano “Chichivel”. Un appezzamento di circa 30 ettari, con addirittura 42 proprietari. Diedi subito incarico di acquistarla tutta. E da lì iniziò l’avventura». La famiglia, del resto, segue con interesse i viaggi in Roero dell’avventuriero Bruno.

L’ETICHETTA DEL BLANGÉ FIRMATA DA SILVIO COPPOLA

«Parlai con mio fratello Marcello – continua il racconto – e gli dissi che dovevamo studiare un progetto di successo e innovativo per il nostro primo vino bianco. In che senso “innovativo”? Quando vado al ristorante, mi siedo sempre in un cantuccio, in modo da osservare gli altri clienti. Avevo notato che quando arrivavano due fidanzatini, su suggerimento della donna, chiedevano spesso dei vini bianchi con delle caratteristiche molto precise. Profumati, non petillant ma che punzecchiavano leggermente, dando inizio a quelle che oggi chiameremmo “bollicine”. Vini rotondi, morbidi, di grande piacevolezza. Il vino che avevo in mente, dissi a mio fratello, introducendo di fatto quella che è un’altra grande innovazione di questa azienda nel campo dell’estetica, dovrà essere accompagnato dall’etichetta realizzata da un gradissimo designer. Che sappia creare qualcosa di innovativo, di grande bellezza ed eleganza». Quel «qualcuno» fu Silvio Coppola.

Un architetto, designer e grafico già noto, all’epoca, per aver realizzato l’etichetta del Tignanello degli Antinori. Per convincerlo a salire a bordo del progetto Blangé, Bruno Ceretto organizza un evento regale. «Era il 12 ottobre 1985 – spiega – quando lo invitai qui da noi ad Alba, insieme ad altri venti grandissimi designer ed architetti di fama internazionale. Gente che oggi chiameremmo “archistar”. L’idea era quella di un pranzo, utile a introdurre l’argomento dell’etichetta del Blangé. Ad ognuno fu consegnato un foglio bianco, ma nessuno portò a termine il “compito”. Perché? Finirono tutti sdraiati, ubriachi e a pancia piena». Tutti tranne Coppola. Che seppe resistere al fascino irripetibile dei fiumi di Barolo del 1961, serviti dallo staff di Bruno Ceretto. «In 20 si scolarono 36 bottiglie, abbinandole a bistecche di Fassona su cui feci grattare 50 grammi di tartufo per ciascuna. Ricordo ancora quando Coppola si alzò e disse: “Banda di ubriaconi, l’etichetta ce la facciamo io e Bruno Ceretto!”».

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PERCHÉ L’ARNEIS DI CERETTO SI CHIAMA BLANGÉ?

Fu del noto designer l’idea di una bottiglia di vetro bianco, trasparente. «Prima di mostrarmi cosa aveva in mente per l’etichetta – prosegue il papà del Blangé – Coppola mi chiese se fossi un credente. Gli risposi con ironia: “A giorni! Oggi, per esempio, davanti al Barolo 1961, alle bistecche di Fassona e a così tanto tartufo, credo eccome!”. La domanda, però, aveva un senso. Mi disse che il suo obiettivo era quello di mostrare l’anima del vino, “perché nessuno vede la sua anima, anche se è credente”. Nacque così l’etichetta forata del Blangé, con le scritte dorate e, soprattutto, la grande “B” che lascia intravedere il colore del vino. La sua anima. Coppola mi chiese un favore: poter scrivere il suo nome, in piccolo, in un angolino. Come una sorta di firma. Lo accontentai, ovviamente. Detto ciò, l’etichetta fu costosissima: 50 milioni di lire! Fu copiatissima. Il vino ebbe un successo immediato, planetario. Lo presentammo in giro per il mondo. Purtroppo, Silvio morì prima della fine di quello stesso anno».

Ma perché l’Arneis di Ceretto si chiama Blangé? «Quando ci siamo presentati dal notaio per acquistare uno dei tanti appezzamenti di Arneis da cui ha avuto inizio la nostra avventura – risponde Bruno Ceretto – tra i venditori c’era un dirigente della Fiat, con la passione per la storia e l’etimologia. Secondo il suo racconto Napoleone, che firmò a Cherasco l’Armistizio del 1796 con Vittorio Amedeo III di Savoia, fece arrivare nella zona diverse migliaia di francesi. “Blangé” deriva dalla contrazione, in piemontese, della parola boulanger, ovvero panettiere. Una delle vigne che stavamo acquistando era di proprietà di un panettiere, nel Settecento. E così veniva identificata dalla popolazione locale, per la quale il termine era diventato una sorta di toponimo. Pane e vino, in definitiva: questo binomio ci convinse subito».

ROBERTA CERETTO E IL BLANGÉ: I NUMERI DI UN ARNEIS ICONA

«Noi siamo “barolisti” e “barbareschisti” per nascita e per convenienza, ma abbiamo gli stessi costi nel produrre una bottiglia di Blangé o di Barolo. Vogliamo che questo nostro Arneis sia un vino consumato dalle famiglie, la domenica. Apprezzandone la bontà, la qualità, la bellezza. E soprattutto il prezzo equilibrato, che dà la convinzione d’aver fatto un affare. Quel che è certo è che, senza una storia alle spalle, un vino non potrà mai avere successo». Ne è convinto Bruno Ceretto, nel commentare la storia visionaria di un’etichetta che si lega, sinuosa, a quella della sua famiglia di Langa. Un tesoro – la prima vendemmia costava già 6 mila lire, oggi il prezzo si aggira attorno ai 20 euro – che è finito tra le mani di Roberta Ceretto.

«Nel tempo – sottolinea – questo vino ha cambiato pelle mille volte. La prima bottiglia di Blangé non era né “Arneis”, né “Langhe”. Non c’era alcuna specificazione. Nel 1985 non era nemmeno Doc. Era semplicemente un “vino bianco”. In questi quarant’anni abbiamo aggiunto “Arneis” e lo abbiamo visto passare da Doc a Docg. Non ultimo, lo abbiamo imbottigliato come Roero e poi come Langhe Doc. Nell’arco di questi quattro decenni, l’etichettatura è cambiata moltissimo. La cosa straordinaria è che un vino che si ricorda per il suo nome, al di là dell’uva che lo compone e delle altre caratteristiche tecniche».

«Sono pochissimi i vini italiani, soprattutto bianchi – evidenzia ancora Roberta Ceretto – che si ricordano col loro nome di fantasia. I vari “Sassicaia” e “Tignanello”, però, partecipano a “campionati” diversi rispetto a quello del Blangé». Un’icona prodotta oggi su una superficie complessiva di di circa 100 ettari di proprietà, per 800 mila bottiglie. Sinonimo di una famiglia delle Langhe. E motore silenzioso di un Roero passato da pochi ettari di Arneis – quelli a cui dava la caccia il giovane Bruno Ceretto, all’inizio degli anni Ottanta – agli attuali 965, su un totale di 1.300. Un pezzo di storia, insomma, il Blangé. Da bere. Ascoltare. Leggere.Ceretto

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